sabato 30 maggio 2009

Il mutuo. Tanti ne parlano, ma cos'è?

Il nostro Codice Civile, all’art. 1813 da una definizione dell’attuale contratto di mutuo: “il mutuo è il contratto col quale una parte (mutuante) consegna all'altra (mutuatario) una determinata quantità di danaro o di altre cose fungibili, e l'altra si obbliga a restituire altrettante cose della stessa specie e qualità”. Altre norme prevedono la sua “presunzione di onerosità (interessi)”, la libertà di forma contrattuale e la possibilità di una restituzione anche a rate. In tempi antichi il denaro non era l’unica merce di scambio esistente, sicchè anche altri beni venivano dati a mutuo e, il corrispettivo, si pagava sempre in relazione agli stessi beni. La particolarità infatti, di questo contratto, non è il “prestito” di un bene che poi deve essere esattamente restituito (come ad esempio una macchina a noleggio o un appartamento in locazione) ma il trasferimento della proprietà del bene dal mutuante al mutuatario e l’obbligo per questo non di restituire lo stesso bene, bensì uno equivalente in misura e qualità. Gaio, un giurista romano morto nel 180 d.c., scriveva del mutuo “L’obbligazione si contrae mediante cosa come nel caso del mutuo. La dazione a mutuo concerne propriamente quelle cose che valgono per peso, numero o misura, quali il denaro contante, il vino, l’olio, il frumento, il rame, l’argento e l’oro. Diamo queste cose, a numero, peso o misura, affinché diventino di chi le riceve, e ci vengano successivamente restituite, non le stesse, ma altre della stessa natura. Per questo è chiamato mutuo, perché quel che ti è dato in questo modo da me, diventa da mio, tuo

Inammissibile il ricorso per cassazione se consegnato a dipendente dell’Agenzia delle Entrate, anziché notificato.

E’ profondamente giusto che tutti conoscano i curiosi arzigogoli della nostra Corte Suprema. Questa volta tocca alla sezione tributaria con la sentenza 11620 depositata lo scorso 19 maggio 2009. Una doverosa premessa per i non addetti: la notifica è “atto dell’ufficiale giudiziario” (ma anche dell’aiutante, del trimestrale, del messo comunale, del postino e di recente, dell’avvocato autorizzato) mediante la quale si attesta la consegna “legale” di copia di un atto (o documento) al destinatario; oppure anche senza la consegna materiale, comunque si mette a conoscenza “legale” il o i destinatari, del contenuto di un atto (ad es. la notifica per pubblici proclami). E’ intuitivo che la notifica “per eccellenza” è quella effettuata nelle mani del destinatario. Se il destinatario è una persona giuridica, un ente, è altrettanto ovvio che andrà individuato il “soggetto idoneo” a riceverla. Altro principio generale è che la costituzione in giudizio, successiva alla notifica, sana eventuali vizi di cui fosse affetta la stessa notifica “in quanto l’atto ha raggiunto il suo scopo”. Fermi questi principi generali, per il processo tributario l’art.16 del d.lgs. n. 546 del 1992 testualmente dispone: le notificazioni possono essere fatte anche direttamente a mezzo del servizio postale mediante spedizione dell'atto in plico senza busta raccomandato con avviso di ricevimento ovvero all'ufficio del ministero delle finanze ed all'ente locale mediante consegna dell'atto all'impiegato addetto che ne rilascia ricevuta sulla copia.Quindi non prevede la necessità di un soggetto qualificato a fare le notifiche, ben potendole fare la parte personalmente (o il suo difensore), e prevede che “l’impiegato addetto” (o meglio che si qualifica tale…) ne rilascia una ricevuta sulla copia. La sentenza in commento dichiara inammissibile il ricorso proposto da un contribuente contro l’Agenzia delle entrate consegnato al dipendente dell’Agenzia delle entrate ma non notificato con l’ufficiale giudiziario. E questo, anche se vi è stata la successiva costituzione in giudizio dell’Agenzia delle entrate (quindi aveva avuto ben conoscenza del ricorso). A tali conclusioni, la Cassazione è giunta in quanto "il ricorso risulta consegnato dal contribuente (e non notificato) al “Front Office” dell’ufficio delle entrate di Aversa. Tale modalità di introduzione del giudizio non è sicuramente equipollente ad una notificazione (che è atto dell’ufficiale giudiziario), costituente l’unica modalità di introduzione del giudizio di Cassazione, cui – anche a prescindere dal fatto che la consegna ad un dipendente non equivale a consegna a mani proprie – comunque non si applica l’art.17 del d.lgs. n. 546 del 1992 (Cass. 3419/05), dettato esclusivamente per il giudizio dinanzi alle commissioni tributarie. Deve dunque ritenersi che la notificazione sia del tutto inesistente, con la conseguenza declaratoria di inammissibilità del ricorso, a nulla rilevando l’intervenuta costituzione in giudizio dell’agenzia". Al di là del fatto che “la consegna a mani proprie di un ente” può essere solo frutto di fantasia, il decreto legislativo di cui in discorso titola: DISPOSIZIONI SUL PROCESSO TRIBUTARIO. Senza eccezioni.

Tollerare le infedeltà coniugali, può costare caro: il mantenimento alla fedigrafa è dovuto

Dichiarati incostituzionali gli art. 559 e 560 del codice penale sono rispettivamente cadute le figure di reato dell’adulterio e del concubinato. Residuano però riflessi civilistici da questi comportamenti che spesso vengono fatti valere (solo) in sede di separazione dei coniugi. Sicchè, in questo campo, da una vecchia separazione “per colpa” - del coniuge che li commetteva - si è passati ad una separazione “con addebito” a quello stesso coniuge. Le conseguenze dell’addebito sono soprattutto economiche infatti il coniuge “colpevole del fallimento del matrimonio” non ha diritto al mantenimento (ossia l’assegno che gli consentirebbe di mantenere “lo stesso tenore di vita goduto in costanza di matrimonio”). Negli ultimi anni la giurisprudenza, in aderenza con i mutati cambiamenti sociali che hanno mitigato l’offesa derivante dal fatto (laddove il tradimento non è più avvertito come ragione di riprovevolezza sociale), difficilmente riconosce l’addebitabilità di una separazione per infedeltà; ciò che potrebbe invece incidere è l’offesa, il clamore che il comportamento del coniuge infedele produce. Fatte queste doverose premesse, l’esame della recentissima sentenza di Cassazione, la n. 12419 del 2009, diventa più “digeribile”. Il fatto riguarda una coppia dove la moglie, per ben dodici anni precedenti la separazione, ha avuto una relazione extraconiugale della quale era pienamente a conoscenza il marito e questo in seguito alla separazione non vorrebbe riconoscerle l’assegno di mantenimento. In effetti, lei è andata a vivere con un nuovo e ricco compagno ma, gli Ermellini hanno deciso che il marito deve continuare a versarle l’assegno di mantenimento di 1.300 Euro mensili. La Cassazione afferma infatti che la consapevolezza del marito, della relazione extraconiugale della moglie, ha generato un suo sostanziale benestare a tale situazione. Non solo, ma il successo del marito, seppur in parte, derivava proprio dalla moglie la quale, sebbene non avesse una occupazione lavorativa, aveva una “intensa vita sociale e sportiva” che contribuiva ad “ampliare le opportunità professionali per il marito”. Quanto al tenore di vita, il marito, nonostante le infedeltà continuava a far godere alla moglie un tenore di vita farcito di “svaghi propri di una elite di persone facoltose”. Di qui l’obbligo all’assegno successivo per mantenere quel tenore di vita.

lunedì 25 maggio 2009

Anatocismo: sentenza da record.

Quasi 330.000 Euro. Questa è la condanna che il Tribunale di Firenze ha inflitto ad una banca, per una causa di anatocismo, a favore di un commerciante che per 12 anni è stato costretto a lavorare con lo scoperto di conto corrente. E senza neppure un euro di danni. Il commerciante ha anche sollecitato il legale ad un pignoramento della banca perché rimasta inerme (o sbigottita). Detto fatto. L’ufficiale giudiziario si è presentato in banca per l’esecuzione immobiliare. La banca però non è rimasta a guardare: ha pagato nelle mani dell’ufficiale giudiziario, sicché il correntista dovrà ora attendere anche il provvedimento di svincolo del Giudice dell’Esecuzione.

sabato 23 maggio 2009

Telefonate dall’ufficio. Se non sono sporadiche e urgenti, è reato.

La Corte di Cassazione con la sentenza 21165 del 2009 ha stabilito che le telefonate private fatte dall'ufficio sono lecite solo se sono sporadiche e urgenti: diversamente si commette reato. I giudici supremi hanno voluto mettere in guardia i dipendenti pubblici sottolineando che soprattutto quando si tratta di telefonate fatte per puro divertimento, si rischia una condanna per peculato. Secondo la Corte, infatti, "l'uso privato dell'apparecchio telefonico comporta l'appropriazione (non restituibile) delle energie necessarie alla comunicazione, di cui l'impiegato ha disponibilità per ragioni di ufficio" e per questo rientra nel reato punito dall'art. 314 c.p. l'"uso smodato" e "non episodico" del telefono aziendale per fini privati.
Il fatto riguardava il segretario di un reparto di otorinolaringoiatria di un ospedale pubblico il quale aveva fatto numerose telefonate private, anche in paesi esteri per "soddisfare la sua sfera ludica (frequenti contatti, anche internazionali, con appassionati di caccia)". Per tal motivo si è visto confermare la condanna impugnata.

sabato 9 maggio 2009

Dal Palazzaccio un monito all’ex marito invadente: commette reato e deve risarcire il danno.

La sentenza 19116/2009 ha disposto che l'ex marito che, seppur comproprietario, entra nella ex casa coniugale senza il consenso della moglie, cui la stessa casa era stata assegnata, commette reato e deve risarcire il danno. Ed il reato è quello previsto dall’art. 633 cod. pen. sulla invasione di edificio. Il danno? Gli Ermellini hanno confermato la condanna ad una provvisionale di 15.500 euro per l'invasione della casa.
In primo grado il Tribunale di Roma lo aveva assolto, ma la Corte d'Appello invece lo aveva ritenuto colpevole condannandolo al pagamento della provvisionale di 15.500. Inutile il ricorso in Cassazione in cui l'ex marito aveva sostenuto di essere comproprietario dell'appartamento e che il risarcimento da liquidare alla moglie era eccessivo anche considerato il fatto che lei intendeva darlo in affitto per 600 euro mensili. I giudici della Cassazione hanno respinto il ricorso evidenziando la manifesta infondatezza dei motivi "che preclude la possibilità di dichiarare le cause di non punibilità".

Automobilisti. Non impugnabile il preavviso di fermo del veicolo.

Con la sentenza 8890 del 2009, la Seconda Sezione Civile della Cassazione ha stabilito che non è possibile impugnare il preavviso di fermo amministrativo in quanto "la comunicazione preventiva di fermo amministrativo (c.d. preavviso) di un veicolo, notificata a cura del concessionario esattore, non arrecando alcuna menomazione al patrimonio – poiché il presunto debitore, fino a quando il fermo non sia stato iscritto nei pubblici registri, può pienamente utilizzare il bene e disporre – è atto non previsto dalla sequenza procedimentale dell’esecuzione esattoriale e, pertanto, non può essere autonomamente impugnabile ex art. 23 L. n. 689/81, non essendo il destinatario titolare di alcun interesse ad agire ai sensi dell’art. 100 cod. proc. civ." ed ha aggiunto che "L’azione di accertamento negativo del credito dell’amministrazione, da parte sua, non può essere astrattamente proposta in ogni tempo per sottrarsi alla preannunciata esecuzione della cartella esattoriale, impugnabile con le forme, i tempi e il rito specificamente dipendenti dalla sua origine e dal tipo di vizi fatti valere".

L’illecita influenza sull’assemblea: atti fraudolenti e simulati. Sussiste il reato anche se si elude lo statuto.

La Prima Sezione Penale della Suprema Corte torna ad occuparsi di reati che possono scaturire da previsioni normative del codice civile. Le norme che vengono interpretate dagli Ermellini con la sentenza n. 17854/2009 sono l’art. 2636 ed il 1414 c.c. in tema di illecita influenza sull’assemblea dei soci.
La (prima) norma civilistica specifica che al commettersi di “atti simulati o fraudolenti” per determinare una influenza sull’assemblea, che comporta a sé o terzi un ingiusto profitto, provoca la sanzione della reclusione da 6 mesi a 3 anni.
Per atti fraudolenti devono intendersi tutti gli atti in frode o contrari alla legge.
Per atti simulati devono intendersi in una accezione più ampia di quella civilistica, perché “essa non evoca soltanto l’istituto della simulazione regolato dagli artt. 1414 e ss. C.c., ma include qualsiasi operazione che artificiosamente permetta di alterare la formazione delle maggioranze richieste per l’approvazione delle deliberazioni assembleari e di conseguire così risultati vietati dalla legge o dallo statuto della società.”
Da questo spunto, la Corte ha elencato (seppur non in modo esaustivo) quelle situazioni riconducibili nella fattispecie di reato prefigurata dall’art. 2636 c.c. come “illecita influenza sull’assemblea”:
  • il comportamento del socio, che si avvalga di azioni o quote non collocate, intendendo per tali quelle non vendute, ovvero quelle per le quali il socio non abbia effettuato, nei termini prescritti, il versamento di quanto dovuto;
  • il comportamento del socio che, occultando la mora nei versamenti, che gli precluderebbe il diritto di voto, tragga in inganno l’assemblea, facendosi apparire come portatore di un diritto di voto, del quale in realtà non è titolare;
  • le dichiarazioni mendaci o reticenti, provenienti dagli amministratori o dai terzi, con le quali l’assemblea od i singoli soci vengano tratti in inganno sulla portata o convenienza di una delibera;
  • l’incetta di deleghe fraudolentemente realizzata in violazione dei limiti posti dall’art. 2372 c.c.;
  • la maliziosa convocazione di un’assemblea in tempo o luoghi tali da precludere un’effettiva partecipazione dei soci;
  • i possibili abusi funzionali della presidenza dell’assemblea, a qualsiasi soggetto affidata ex art. 2371 c.c., quali l’artificiosa o, fraudolenta esclusione dal voto di soggetti aventi diritto o, all’inverso, l’ammissione al voto di soggetti non legittimati;
  • la falsificazione della documentazione relativa all’assemblea dei soci.
In tutte le situazioni sopra, la illeceità della condotta è caratterizzata dalla presenza di atti simulati o fraudolenti che hanno avuto efficacia determinante per l’adozione di deliberazioni assembleari assunte in violazione di divieti legali o statutari.

venerdì 1 maggio 2009

Usura e anatocismo bancario. Nozione e conseguenze.

Ai “non addetti ai lavori” proviamo a spiegare, in termini semplici i due concetti.
L’anatocismo consiste nel conteggio (ed applicazione) di interessi sugli interessi.
Pensiamo agli interessi che le banche applicavano trimestralmente sui conti correnti e sugli stessi ricalcolati altri interessi nel trimestre successivo, oppure, nel caso di mutuo, agli interessi di mora, calcolati su tutta la rata scaduta (e non pagata in tempo) piuttosto che solo sulla parte di rata che costituiva il capitale (vd. prospetto di ammortamento) e non anche sulla quota di interessi.
L’Usura è la pratica perseguita da chi si fa dare o promettere interessi notevolmente alti.
L’art. 644 del codice penale, che lo prevede, è stato modificato dalla L. 108/1996. Con questa legge è stata introdotta la cd. usura oggettiva: ossia sono usurari gli interessi che comunque superano il cd. tasso soglia. Questo Tasso viene determinato aumentando del 50% quello medio rilevato trimestralmente dal Ministero, per tipologie omogenee (conti correnti, leasing, ed altro). Orbene la Legge citata stabilisce che qualunque addebito viene applicato (comunque voglia chiamarsi), al di fuori dei bolli delle imposte e delle tasse (e dunque anche gli interessi anatocistici), concorre alla formazione della voce interessi o costo o guadagno (vista dalla parte delle banche). La risultanza, se supera il tasso medio + il suo 50% costituisce usura.
In passato, l’usura veniva sempre legata alla condizione soggettiva (stato di bisogno) del debitore e (all’approfittamento) del creditore.
Le conseguenze sono diverse: le somme addebitate a titolo di anatocismo sono non dovute e dunque può esserne chiesta la restituzione (con gli interessi). Se invece siamo in presenza di usura, l’art.1815 cod.civ. dispone un sistema sanzionatorio: non sono affatto dovuti gli interessi, neppure quelli legali.
Cosa si può fare contro la banca? Alla prossima puntata. :-)

Danni da cani randagi? Responsabile la Asl competente. E chi li abbandona?

La Corte di Cassazione con la sentenza n. 8137/2009 ha precisato che, chi è tenuto al risarcimento dei danni provocati dai cani randagi, non sempre è il Comune.
Infatti, in presenza di leggi regionali che affidano alle Asl territorialmente competenti, o meglio ai loro servizi veterinari, la lotta al randagismo, saranno le Asl stesse a dover rispondere delle richieste dei danni alle persone che assumono averne subiti da cani randagi. Gli Ermellini hanno infatti disposto che “la legittimazione passiva spetta alla locale azienda sanitaria, succeduta alla USL, e non al Comune, sul quale, perciò, non può ritenersi ricadente il giudizio di imputazione dei danni dipendenti dal suddetto evento”.
Forse andrebbe fatto un distinguo tra cani “nati randagi” e cani “divenuti randagi” perché abbandonati; ed in tal ultima ipotesi, ove possibile, ritenere responsabile solidalmente “il vecchio padrone”.

Segreti aziendali sbandierati? Non è penalmente rilevante se non c'è nocumento alla società

La sentenza 17744/2009 della Cassazione Penale ha statuito che non è punibile il dipendente che divulga i segreti aziendali a meno che non si dimostri che questa divulgazione abbia causato un concreto danno. Del resto “ai sensi dell’art. 621 c.p. la rivelazione del contenuto di documenti segreti costituisce reato solo se dal fatto deriva un nocumento, inteso questo come pregiudizio giuridicamente rilevante di qualsiasi natura possa derivare a colui che abbia il diritto alla segretezza dei documenti.” Di qui la legittimità della condotta del dipendente dal punto di vista penalistico.
Sotto altro profilo non può negarsi che la stessa condotta può ledere la fiducia ed il rispetto per l’azienda e dunque minacciare il rapporto di lavoro subordinato.